Il Monte Rushmore e la «palese profanazione»

Il Monte Rushmore e la «palese profanazione»

La scena sul monte Rushmore è una delle più famose ambientazioni di Hitchcock, la realizzazione di un vecchio desiderio: “celebrare quelle facce gigantesche e impassibili”.

A tal proposito ricordiamo i problemi che Hitchcock ebbe con la censura, proprio per l’utilizzo del Monte Rushmore e la «palese profanazione» ai presidenti americani, tanto che il direttore di un giornale, incollerito, suggerì: «Il signor Hitchcock torni a casa sua in Inghilterra e disegni persone che sgambettano sulla faccia della regina».

«A causa del veto governativo», spiegò più tardi Hitchcock, «ci dissero in maniera tassativa che potevamo solo far scivolare i personaggi fra le teste dei presidenti. Dicevano che dopotutto quello era il santuario della democrazia».

Questo monumento tanto amato dagli americani, deve gran parte del suo fascino alla singolare fusione che in esso si realizza fra creazione umana e paesaggio, fra mondo animale, vegetale e minerale.

«Gli enormi volti scolpiti sfumano nel paesaggio circostante che diviene la loro prosecuzione materiale […].

È come se la civiltà statunitense, non paga di eternare nella pietra i propri ideali, volesse perfino trasformarli in natura» .

Per le riprese in interno il regista si affidò a Robert Boyle (che aveva costruito i set di Sabotatori e Ombra del dubbio) e, nonostante dovettero utilizzare dei modellini al posto delle facce del Monte Rushmore «a condizione che apparissero solo di spalle, o la parte sotto il mento», i due riuscirono a lavorare alle inquadrature in maniera tale da non sacrificare nulla.

Ricorda Boyle: «Nessuno fra i registi con cui avevo lavorato conosceva così a fondo la tecnica cinematografica. Molti ne sapevano abbastanza, ma non avevano la sua capacità. Cercava sempre di esporre i fatti visivamente e non sprecava mai un fotogramma».

Nell’ultima scena Hitchcock beffa genialmente la censura: nuovamente insieme in un vagone letto, Roger abbraccia Eve e, mentre scorrono i titoli di coda, il treno si infila nel tunnel.

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Sara Soliman

L’ombra del dubbio o Shadow of a doubt, film del 1943

L’ombra del dubbio o Shadow of a doubt, film del 1943

Per la prima volta nella sua vita Hitchcock, persona molto riservata, riversò la sua vita nel primo film “autobiografico” della sua carriera.

Il film può essere considerato anche un manuale di tutti gli influssi letterari e culturali sulla sua vita, oltre che una pubblica confessione della profondità della sua angoscia e della sua crisi personale.

Teresa Wright racconta, in un’intervista rilasciata a Daniel Spoto:

Prima di cominciare, lui aveva già visto tutto il film nella mente, era come se avesse in testa una piccola sala di produzione. Quando, nel giugno del 1942, la prima volta che ci incontrammo nel suo ufficio, mi raccontò la storia, era come stare al cinema a guardare il film intero.
Perciò, mentre si girava, ci faceva sentire molto rilassati. Quando non dirigeva non sembrava desse istruzioni; sentivamo di poterci fidare di lui e lui ci guidava, dandoci un senso di libertà. […] Nessuno pianifica un film in modo così totale come faceva lui, nessuno ha le idee così chiare sin dall’inizio come lui.

Ricordava anche i giochi di parole e le freddure con cui Hitchcock era solito divertire la troupe.

Tutto era studiato e pianificato nei minimi particolari, dal rumore dei passi nella notte al tambureggiare delle dita, che non era un tambureggiare qualsiasi, aveva un ritmo, un certo schema musicale, un ritornello. Usava il sonoro come nessun’ altro.

Il personaggio interpretato da Cotten è un uomo con cui Hithcock si identifica chiaramente: nella sceneggiatura è descritto come «meticoloso e terribilmente ordinato», come Hitchcock era fiero di essere.

Da bambino, Charlie ebbe un incidente identico a quello che ebbe Hitch da piccolo e, nel film, la descrizione è quella del piccolo Alfred: «Era un bambino tranquillo, stava sempre a leggere» dice la sorella.

Anche i sentimenti di quel cattivo raffinato erano gli stessi del regista: nostalgia del passato e disprezzo del presente, che ritroviamo nelle parole di Charlie:

Tutti erano gentili e carini allora. Il mondo intero lo era. Un mondo meraviglioso. Non come il mondo di oggi, non come il mondo di adesso. Era bello essere piccoli allora.

Tuttavia, oltre ad assimilarsi con l’elegante strangolatore (lo strangolamento è sempre il modo di uccidere preferito dagli assassini di Hitchcock), il regista si identificava anche nei bambini di casa: la ragazzina è una divoratrice di romanzi romantici (c’è un preciso riferimento a Ivanhoe, di cui Hitch conosceva a memoria ampi versi) e al bambino piace interrompere le discussioni degli adulti con qualche problema di logica.

La madre, sorella del cattivo, è la reincarnazione della madre del regista: porta lo stesso nome, ha sentimenti contrastanti, sensi di colpa e esternazioni alternate di amore e rancore.

Ma sono i due Charlie che svelano il lato palese e di quello oscuro della natura adulta di Hitchcock, rappresentati dalla mostruosità dello zio e dall’innocenza della nipote, ingenua, fiduciosa e felice di portare lo stesso nome dello zio che ammira.

Esiste insomma, tra i due, un legame molto forte:

«Noi non siamo zio e nipote soltanto. È molto diverso. Io ti conosco. So che non ami parlare troppo alla gente. E io nemmeno […]. Siamo una specie di gemelli noi due, no?»

dice Teresa Wright nei panni di Charlie.

Come scrive Spoto, Alfred Hitchcock era in realtà entrambi i Charlie, la raffigurazione dell’aforisma di Montaigne:

«Siamo doppi in noi stessi, tanto che crediamo in ciò che aborriamo e non riusciamo a liberarci di ciò che condanniamo».

Il film rappresenta dunque una chiave per comprendere la complessa vita interiore del regista, con una griglia di simbolismi utili a fare luce sui rapporti con la sua famiglia, con il suo io spaccato in due e con la cultura da cui si era allontanato.

La divisione dell’animo di Hitchcock si esprime in una lunga serie di doppi: i due Charlie, i due detective che lo seguono, due donne con gli occhiali, due criminali ricercati, le due scene a tavola, le due scene fuori dalla chiesa e le due scene alla stazione, i due medici, i due doppi brandy serviti da una cameriera che lavorava da due settimane al bar Till Two, due scene nel garage, e così via.

Il dualismo è anche nell’uso della macchina da presa, nel modo in cui il regista presenta zio e nipote: campo lungo delle rispettive città, poi l’esterno della casa, la finestra, poi un carrello lento di ognuno mentre si trova in camera, sul letto e vestito.

È una presentazione secondo punti di vista paralleli.

In finale, la morte dello zio Charlie, rappresenta il tentativo, per il regista, di sciogliere quella tensione che animava il suo essere duplice.

Da sempre Hitchcock conviveva con fantasie assassine romantiche e gotiche, con sogni erotici ad occhi aperti mai soddisfatti e con i demoni della lussuria e della gelosia.

Sapeva di essere spesso tirannico con gli attori, talvolta imprevedibile e volubile, ma anche capace di improvvisi e inspiegabili gesti di gentilezza (come, ad esempio, l’auto regalata alla sua cuoca, il sostegno finanziario a una parente in difficoltà o una lettera per aiutare qualcuno in cerca di lavoro).

Hitchcock aveva scoperto a scuola il tema del doppio, importante convenzione delle storie tardo vittoriane.

Tra le sue letture non mancano «Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde» (1886) di Robert Louis Stevenson e «Il ritratto di Dorian Gray» (1891) di Oscar Wilde, dove il bene e il male sono chiaramente distinti ma intercambiabili e le debolezze umane sono spesso in contrasto con il senso del dovere.

Sia Stevenson che Hitchcock hanno subito la repressione puritana ed entrambi hanno rievocato immagini dello squallore puritano dell’epoca tardo vittoriana, che non consentiva di condurre una vita pubblica onorata e una vita privata felice allo stesso tempo.

Hitchcock pensava che la vita sociale fosse una gigantesca ipocrisia e «si portava addosso il peso di un travestimento come tutti i suoi affascinanti cattivi e lo sforzo di apparire elegante nascondeva il segreto infantile di una seconda vita, nascosta e immaginaria».

 

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Sara Soliman

 

 

 

Perché un altro blog su Alfred Hitchcock?

Perché un altro blog su Alfred Hitchcock?

Perché un altro blog su Hitchcock?

Questo blog nasce con lo scopo di mettere a disposizione le mie ricerche a un pubblico appassionato del cinema di Hitchcock, del film giallo e del cinema d’autore.

Ma il desiderio più profondo è quello di rileggere il cinema di Hitchcock e sottolineare ancora una volta la maestria di un uomo che non fu solo uno dei più grandi registi del ventesimo secolo ma rappresenta, in un certo senso, un fenomeno culturale, tanto che il termine hitchcockiano viene usato oggi per descrivere coinvolgimento, suspense, mistero, e uno stile visivo minimalista che suscita l’immaginazione nel pubblico.

Nonostante sia un regista di cui si è scritto e parlato molto, si corre ancora il rischio di non cogliere l’eterogeneità delle letture proposte dai suoi film.

Si cercherà di cogliere dunque, senza alcuna pretesa di esaustività, la complessità dell’universo hitchockiano:  una complessità spesso mascherata dai meccanismi di seduzione, dalla perfezione della suspense e dall’ironia diffusa in ogni suo lavoro, oltre che dall’eleganza della messinscena, specchio di una Hollywood che non esiste più.

Mio intento è anche quello di approfondire il rapporto che Hitch aveva con le donne, la moglie in primis ma soprattutto le bellissime attrici di cui si circondava.

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Sara Soliman

 

James Stewart come alterego di Hitch

James Stewart come alterego di Hitch

Nel film James Stewart è il perfetto ed evidente alter-ego di Hitchcock.

Le domande inquisitorie di un uomo che cerca non solo di risolvere un mistero e salvare una donna, ma anche esercitare il controllo, corrispondono alle lunghe riunioni private che Hitchcock aveva tenuto con le sue attrici preferite: Madeleine Carroll, Joan Fontaine, Ingrid Bergman, Grace Kelly e Vera Miles e che avrebbe raggiunto il suo apice con la sua ossessione per Kim Novak.

Vertigo è l’analisi più profonda offerta di Hitchcock sulle forze opposte, il tema del doppio viene qui dipinto come scontro di impulsi contrari (che derivano dal ciclo vergogna-paura-colpa) ma anche come attrazione-repulsione verso la bellezza di un’attrice del cinema, che altro non è che un’illusione.

L’attrice rappresenta per il regista l’oggetto di inganno e desiderio, come emerge nelle scene in cui Stewart si avvicina alla donna dopo averla riconosciuta: gli impulsi sono di tipo sessuale, ma i gesti sono ghiacciati dalla paura; il personaggio fa esattamente ciò che Hitchcock aveva fatto con le attrici che amava di più.

D’altro canto, la bellezza delle sue attrice è uguale solo alla loro freddezza, divenuta sinonimo di donna hitchcockiana.

Un aspetto da sottolineare è la scelta, da parte del regista, di discostarsi dal libro anticipando a circa mezz’ora dalla fine la soluzione della storia.

La confessione anticipata della protagonista appare quasi una scena inserita frettolosamente (anche se non è cosi) per informare lo spettatore, che però in questo modo si perde la suspense creata dall’inizio del film.

Allo spettatore non resta che concentrarsi maggiormente sulla figura doppia della protagonista, staccandosi così da quella del protagonista, che vediamo agire in modo sempre più ossessivo e feticista.

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Sara Soliman